L'ecumenismo pratico di don Calabria

Card. Claudio Gugerotti
Prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali, Arcivescovo titolare di Ravello

Riflessione scritta per il numero speciale della rivista "L'Amico" per il 150° anniversario della nascita di san Giovanni Calabria (settembre 2023) - versione integrale

 
La presenza e l’opera di san Giovanni Calabria nella vita della Chiesa parte da una domanda, alla quale umanamente è difficile rispondere: che cosa c’era in quel ragazzo affamato, stremato dal poco cibo e dalle notti trascorse a lavorare per vivere, tale da suscitare quel genio della carità, quale abbiamo avuto la fortuna di incontrare? Tutto sembrava allearsi per far prevedere una riuscita mediocre, forse addirittura tale da escluderlo, non fosse stato che per merito di alcuni spiriti illuminati, dallo stesso esercizio del sacerdozio per scarsità di premesse umane e, ancor di più, dall’idea che da lui potesse nascere una Congregazione capace di espandersi fino a toccare e sanare infiniti bisogni materiali e spirituali. Per chi crede, è evidente l’opera dello Spirito Santo. Per chi non crede, non si può che rilevare una scissione tra l’umanamente e logicamente prevedibile e la valutazione degli esiti di quanto non si poteva immaginare.
 
Quanto dirò in questo testo non si limita alla prospettiva ecumenica. A mio modo di vedere, vale per tutti gli aspetti della pluriforme esperienza calabriana: la possibilità che la realtà non derivi dalla matematica sommatoria degli elementi valutati, ma si conceda un salto di forma e di coerenza, capace di suscitare stupore e ammirazione anche oggi.
Don Calabria fu tutt’altro che uno spirito polemico con la realtà ecclesiale in cui viveva; non fu un barricadero contestatore di una istituzione, cui anzi fu fedele in sommo grado, anche quando essa mostrò di non comprendere a fondo talune sue intuizioni che, col trascorrere del tempo, si sarebbero dimostrate profetiche, divenendo realtà acquisite nel pensiero della Chiesa.
Anche nel campo dell’ecumenismo don Calabria fu costretto a frenare i suoi ardori, e lo fece con sofferenza, ma anche con grande onestà e fiducia in Dio. Le vicende del suo rapporto con la Catholica Unio, alla cui sospensione contribuì in maniera determinante proprio il Dicastero che mi è stato recentemente affidato dal Santo Padre, sono ben note, come anche i travagli del suo rapporto con il metropolita ortodosso romeno Visarion Puiu. Le traversie del suo articolo che si sarebbe dovuto pubblicare su L’Osservatore Romano sono davvero una storia infinita di lodi diplomatiche che significavano evidenti prese di distanza. Eppure don Calabria non si dà per vinto. E’ perché è attaccato a una sua visione personale al punto da farne il perno del suo orgoglio? Niente di più distante dalla sua psicologia, prima ancora che dalla sua spiritualità.
Lo scambio epistolare con C. S. Lewis e con altri anglicani, fino all’arcivescovo di Canterbury, o con protestanti e con ebrei aveva eminentemente uno scopo proselitistico, visto che alcuni di essi divennero cattolici? Non possiamo immaginare che queste conversioni siano dispiaciute a don Calabria. Quale bagaglio teologico egli poteva avere in quel tempo, se non la certezza che il “ritorno a Roma” sarebbe stato il sigillo dell’unità? Se san Pio X, nella Editae Saepe Dei del 1910, riferendosi ai protagonisti della Riforma protestante, così li descrive: “Uomini superbi e ribelli, nemici della croce di Cristo, di sentimenti terreni, il cui Dio è il ventre”, non possiamo certo stupirci di certi convincimenti nel pensiero di don Calabria. Egli è convinto che tutte le divisioni nella Chiesa nascano, prima che dalle differenze teologiche, dalle mancanze morali. Il nostro santo però, con l’astuzia degli innocenti che credono, non dice da quale parte stessero le colpe morali che elenca, soprattutto in quella summa del suo sentire ecumenico che fu l’articolo dal titolo Ut Omnes Unum Sint, scritto nel luglio del 1948 su Fides. In questo modo fa capire che esse potrebbero segnare tutte le parti in conflitto nella disfida della divisione tra cristiani e oltre nell’articolo, come vedremo, lo preciserà.
Non v’è dubbio che per lui la Sede di Pietro è il centro dell’unità da riguadagnare. Non partecipa alla nascita del movimento ecumenico in ambito protestante. Perché? La risposta è semplice: ecco cosa ne pensava nel 1927 Papa Pio XI: sotto di essa “si nasconde un gravissimo errore, che scalzerebbe dalle basi il fondamento della Chiesa cattolica” (Mortalium animus, 1927). E questa è la sua Chiesa, alla quale egli totalmente appartiene. Non dimentichiamo mai che prescindere da una visione storica e culturale degli eventi è segno di una ideologia che tende e divenire totalizzante, considerando il proprio punto di vista come eterno e indiscutibile e, in base ad esso, formulando condanne e reprimende di tutto ciò che con esso non coincide. E’ questo un fenomeno sempre in crescita nell’attuale sistema di pensiero occidentale, e non solo. Se ciò consente di scoprire e rifiutare comportamenti non più accettabili, rischia altresì di porsi come censorio nei confronti di tutto quello che, nel tempo e nello spazio, è diverso da sé. E qui si rivela essere un’ennesima, larvata forma di colonialismo.
 
Torniamo dunque all’ecumenismo di don Calabria. Esso nasce dalla stessa “magnanimità” che lo spinse ad andare oltre i limiti di ciò che era scontato al suo tempo. Come ripeto, non lo fece certo per spirito di contestazione, ma per la sua incrollabile fede nel compiersi della Parola di Dio e nella sua sovrana autorità. Il Vangelo per don Calabria è la fonte delle fonti, di cui egli non può tacere il valore irriducibile a formule, schemi e leggi.
Il suo punto di partenza è sempre l’amore di Dio per gli uomini. Questo amore egli contempla incessantemente, in esso vive, e quando non lo sente, soffre fino a un indicibile strazio.
Se Dio ama gli uomini e dichiara beati i poveri, egli si fa povero e si prende cura dei poveri. Se Cristo ci manda a predicare il Vangelo, don Calabria non si limita mai ai confini angusti del proprio ambiente, ma va per il mondo e si fa missionario. Parte di questo orizzonte missionario è costituito dall’ecumenismo. Se Gesù Cristo ha chiesto nella preghiera al Padre che gli uomini siano una cosa sola sul modello della Trinità, l’ecumenismo non è che un modo per realizzare la volontà di Dio “perché il mondo creda”. Come può funzionare la missione se i cristiani vivono lo scandalo della divisione, che impedisce di essere modello attraente dell’amore?
Se a don Calabria stanno stretti i vestiti che la società, e talvolta la Chiesa, gli propongono, egli piano piano tenta di allargarli senza strapparli. Se la sua opera apostolica va nelle direzioni più impensate, ciò è dettato da questa “trascendenza” del modesto orizzonte mentale che lo circonda in cerca dell’infinito amore di Dio. Egli incontra fratelli e sorelle di altre Chiese e religioni, perché il rapporto umano, anche con le autorità più insigni, è il frutto del suo coraggio evangelico di comunicare. Si deve cercare, condividere, anche discutere con le persone più impensate, se si vuole testimoniare che il cattolico non vive chiuso in un ghetto, ma è chiamato all’universalità. Ed è impressionante come molti di questi, pur ignorando la persona e l’opera del santo, rispondano con prontezza, spesso fuori dei semplici schemi della buona educazione, e accettino di mettersi in gioco insieme al nostro infaticabile cercatore di amore. Questa è, a mio avviso, la radice per comprendere la continua sete di ulteriorità che segna la specificità di un uomo, peraltro semplice e alieno da ogni pretesa accademica. La “trascendenza” gli viene dall’essere completamente e sempre immerso nel Trascendente. E siccome don Calabria è un uomo molto pratico, ha bisogno di rendere subito operative le ansie del suo cuore.
Per darne un esempio, mi riferirò al suo articolo Ut Omnes Unum Sint, scritto nel luglio del 1948 su Fides. Inviterei altri, se già non è stato fatto, ad operare con simile metodologia su diversi campi del servizio evangelico calabriano. Egli legge la pagina della preghiera che Gesù leva al Padre per l’unità dei suoi poco prima di morire, e si chiede: E io oggi, con i miei preti e laici, cosa devo fare per rendere attuale questa parola, che sicuramente si compirà?.
 
Come ho già rilevato, un punto non scontato è la comune partecipazione al peccato che sta alla base delle divisioni: “Difetti e virtù, torti e ragioni sono comuni a tutti gli uomini e si trovarono e si trovano dentro e fuori della vera Chiesa”. Ecco un primo punto non scontato nell’apologetica cattolica del suo tempo, così come l’intuizione che si formarono le leggi per condannare gli altri al solo scopo di nascondere il peccato proprio. Questo lo porta ad affermazioni per quegli anni molto audaci: “La fede, la liturgia, il primato furono e sono rimasti pretesti”. L’abito fa saltare i primi bottoni.
Ma proseguiamo nella nostra visita. E’ proprio a partire dalla sua genuina e cristallina esperienza del Vangelo sine glossa che, pur pienamente figlio del suo tempo, egli accenna a una realtà rivoluzionaria: “Gli uomini di buona volontà, i retti, gli onesti, gli umili, coloro che vivono una vita buona e pregano, giungono all’unità. Coloro che non si lasciano dominare da passioni e pregiudizi, da ignoranza e da sofismi incontrano l’unica verità”. Vuol dire che essi necessariamente si faranno cattolici? Qui non lo dice, ma più avanti scopriremo che la sua intuizione è molto più radicale: “E’ vero, non ci può essere amore, se prima non c’è fede. Ma la buona fede di tanti fratelli separati non può essa supplire alla vera fede?”. Si spalancano qui le porte che indurranno la Chiesa cattolica ad interpretare diversamente quell’extra Ecclesiam nulla salus a cui ci si era abituati in senso letterale. Egli, con intuizione geniale, si accorgerà che “buona fede” è già un termine che implica la fede anche per coloro che possono non essere fisicamente “contenuti” nel territorio della Chiesa cattolica.
 
Muoviamo ora un passo ulteriore. Se Dio ci ama, e ci ha amati fino all’ultimo respiro in Cristo Gesù, allora che cosa ci impedisce di scegliere l’amore come punto di partenza nel nostro avvicinarci ai fratelli cristiani di diversa confessione? “Perché allora non cercheremo di avvicinarci nell’amore prima che nella fede?”, si domanda don Calabria. E, se amiamo veramente, possiamo anche partire dal chiedere loro perdono per i torti che abbiamo loro inflitti: “Nessuno è scevro da colpa e il primo atto che ci può riconciliare con i fratelli e farci nuovamente avvicinare a loro è quello di chiedere loro scusa dei nostri inevitabili mancamenti”. Se don Calabria avesse potuto vedere al suo tempo le richieste di perdono che la Chiesa ha imparato a compiere nei nostri tempi, certo ne avrebbe tratto grande consolazione. Sarà spesso un atteggiamento unilaterale da parte nostra? Ai nostri è chiesta la sincerità delle intenzioni e la saggezza nelle valutazioni, ma solo a Dio spetta giudicare gli altri. A noi solo essere testimoni dell’amore vilipeso e schiaffeggiato fino al supplizio della croce, che fu di Cristo Gesù.
 
Il passo successivo che don Calabria propone è anch’esso incredibilmente attuale: l’importante è partire da “quelle cose che abbiamo comuni”. L’intuizione è forte, anche se i tempi la rendono più ardua: si tratta, secondo il santo, di fare fronte comune contro il nemico che vuole distruggere la fede, e cioè il materialismo, fondandoci sui principi morali che condividiamo. Ciò che molto influisce nel tenerci separati “è il non conoscersi, il non incontrarsi”. Questa considerazione avrà, come abbiamo visto, l’esito di portare don Calabria e cercare tutti, a incontrare tutti, ad accogliere tutti. Questo sarà il suo vero ecumenismo. Un ecumenismo pratico. Purtroppo, se molte delle sue intuizioni sono rese più facili nel contesto attuale, questa di una unione morale, pur allora di difficile comprensione (si vedano le lotte politiche nell’Italia di quei tempi), oggi si scontra con un consistente abbassamento della soglia condivisa dei valori comuni, quelli che accomunano per istinto i credenti e forse anche i non credenti. La deriva di un individualismo esasperato e sovrano è andata a tutto scapito della comune certezza di dover difendere un patrimonio che ci unisce: famiglia, vita, rispetto, pace, ecc. sono valori divenuti sempre meno partecipati.
Ricordo una confidenza fattami a suo tempo da Giancarlo Paletta, esponente piuttosto nerboruto del comunismo italiano. Mi raccontò di aver narrato la propria vita in una sezione del suo partito. Raccontò così che a sedici anni fu espulso da tutte le scuole del Regno e per due anni incarcerato dal regime fascista. Per quanto enorme fosse la sofferenza, egli si sentiva fiero della sua coerenza e riferì, per contrapposizione, di un suo amico ebreo il quale, per avere salva la vita, confessò un mai avvenuto tradimento di sua madre con un ariano, da cui egli sarebbe nato. Un atto del genere, diceva l’uomo politico, suscitò in lui un ribrezzo indescrivibile ed egli ne fece menzione in quella sala. Una ragazza reagì dicendogli quanto ritenesse inutile e velleitaria la boria del suo sacrificio a confronto con la concretezza di quell’uomo che era riuscito a salvarsi la vita. “Capii in quel momento che ero stato più vicino al cattolico De Gasperi, contro cui avevo aspramente combattuto, che a quella ragazza del mio stesso partito, figlia del pensiero dei nostri tempi”. Quella condivisione di ideali morali, forse allora data per scontata, portò in Italia alla creazione della Costituzione, di cui, ancora in molti almeno, andiamo fieri. Oggi mi chiedo se su molte questioni morali riusciremmo a trovare una convergenza nella frammentazione della cultura contemporanea, come invece fecero i Costituenti. Resta la coraggiosa intuizione di don Calabria, che di quei tempi fu figlio ed in essi scrisse, di una unione dei cristiani per difendere i grandi valori della vita, come strumento per la promozione dell’ecumenismo.
 
Richiamerò un ultimo punto di quell’articolo, nel quale il santo si sofferma sul ministero del Papa, tema da sempre spinoso nella questione del rapporto fra cristiani. Ebbene, anche in questo campo don Calabria non fa riferimento ai tempi tradizionali della teologia cattolica, ma ad un aspetto, che, a suo modo di vedere, sarebbe stato convincente e attraente: il forte peso morale che Roma aveva assunto nel sostenere le battaglie morali dell’umanità. “Ognuno che ha a cuore il vero bene dell’umanità dolorante e smarrita, trova negli insegnamenti del Romano Pontefice luce e vita sicura, nel suo cuore comprensione profonda (…) Le questioni sociali ed internazionali sanno a chi rivolgersi per un’equa e pacifica soluzione”. Stupisce molto che un uomo apparentemente così alieno dalla politica, abbia colto ciò che, ad esempio, ha cambiato sostanzialmente la natura della diplomazia pontificia. Posso dire per esperienza quanto radicale sia stato l’adattamento di un mezzo nato per difendere i cattolici e lo Stato Pontificio negli ultimi decenni. Oggi il lavoro dei Nunzi Apostolici, i diplomatici del Papa, ha acquisito in molti contesti un ruolo fondamentale e riconosciuto da molti, individui e stati, nel rappresentare la voce che smaschera l’ingiustizia e difende il diritto soprattutto dei più poveri ed emarginati e che può dire quello che altri non sono in grado di dire, per gli interessi che li coinvolgono.
 
Cosa sarebbe successo se, nel campo dell’ecumenismo come in molti altri, don Calabria avesse potuto contare al suo tempo su quelle che furono le acquisizioni del Concilio Vaticano II? Le sue lotte e il suo impegno sarebbero stati certamente più facili, nel campo sociale, teologico, spirituale. Ma la straordinaria combinazione di fedeltà alla Chiesa, profezia e “trascendenza” dall’ovvio, tutto coniugato in una fondamentale concretezza di applicazioni che egli voleva immediate e variegate, non lo avrebbe limitato. Altri bottoni della sua tonaca sarebbero saltati, perché incapaci di contenere questo incessante “sperimentalismo”, non filantropico ma ispirato, come conclude al termine del suo articolo, da quel “Ho sete” pronunciato da Cristo agonizzante, che non permette oziosi e rassegnati adattamenti all’esistente.
“Comprendiamo che il lavoro non sarà facile né di facile successo. Bisognerà studiarlo, vagliarlo, prepararlo con pazienza e preghiera dopo averlo maturato alla luce di Dio. Ma ci sembra di dover dire che il lavoro non consente indugi, che i tempi urgono, che lo reclamano, che sono pronti a riceverlo (…). Chi di noi può misurare il danno che patirebbero milioni e milioni di anime se neghittosamente indugiassimo su di un problema di così vasta ed urgente necessità?”. In questa domanda c’è tutto lo stile di san Giovanni Calabria. Sta ai suoi figli e a tutti noi rispondere coi fatti a questa domanda.